Viaggio in Burundi

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Gakeye umuzungu, buongiorno uomo bianco!

Bambini, bambini ovunque. Il Burundi, sembra essere abitato interamente dai bambini. Ogni coppia ne ha almeno sei, e il Paese aumenta vertiginosamente il suo numero di abitanti: sei milioni su una superficie grande quanto la Calabria. Bambini ovunque, nei canneti, nei bananeti, per strada e nelle campagne. Da lontano non si vedono, stanno rannicchiati al suolo impegnati nei loro giochi o nel loro lavoro. Sono mimetizzati con l’ambiente che li circonda, ma quando sentono il rumore di una jeep si alzano in piedi per guardare chi passa.

A volte pensi di essere solo, lungo le strade sterrate che portano agli agglomerati su in collina. Se ti fermi per fare pipì è quasi certo che dai banani o dalle fitte foglie della foresta spuntino tre o quattro bambini che ti dicono “Gakeye umuzungu, bon bon ?” (Buongiorno uomo bianco, caramelle ?).

Gli umuzungu siamo noi, uomini bianchi, sinonimo di ricchezza e di caramelle. I bianchi in Burundi fanno un po’ quello che vogliono. Passano aiuti ai ribelli o al governo, a seconda di chi è più conveniente sostenere. Passano aiuti sotto forma di opere umanitarie facendo arricchire i corrotti locali e quelli dei Paesi da cui provengono gli aiuti.

I camion del World food program, guidati da neri, fanno avanti e indietro dai depositi di cibo, mentre a un metro dal cancello la gente muore di fame. Umuzungu donne moi une biscuit, ti senti chiedere dai ragazzini lungo la strada. Un biscotto per farli felici, per dar loro un giorno diverso. I bambini non hanno futuro, non possono sognare e le loro uniche speranze sono i preti, le suore e le elezioni di agosto, quando il parlamento eleggerà il nuovo presidente, probabilmente di etnia hutu.

Di Paesi poveri ce ne sono tanti al mondo, il Burundi, però, è tutta un’altra cosa. L’unico posto che assomiglia a una città è la sua capitale, Bujumbura, un concentrato dei mali del Paese. A Bujumbura la delinquenza impera anche tra i ragazzini che camminano a piedi nudi lungo le strade asfaltate e piene di buche. Il caos è enorme, clacson suonano fino a notte fonda e le strade sono percorse da un grande numero di taxi e di macchine delle Nazioni unite. Sono i carri armati Onu e i posti di blocco dell’esercito a ricordare ai passanti che il Burundi è ancora un Paese in guerra. Infatti, se nelle altre cittadine burundesi ormai si spara di rado, a Bujumbura gli scontri sono all’ordine del giorno.

Tutti i giorni muoiono militari o civili fatti passare per ribelli, e ogni giorno viene messo in galera qualcuno che ingiustamente è accusato di aiutare i ribelli. E poi la povertà, ormai parte del paesaggio. Tutto è povero, anche quei quattro palazzi, che dovrebbero essere le sedi di importanti uffici sono costruiti con materiali scarsi e sono maltenuti. Appena fuori dalla capitale gli indici di povertà aumentano vertiginosamente.

Tutto è costruito in legno o in fango. Lungo le strade che portano a nord, nella provincia di Ngozi, posti di blocco dei militari e bambini impegnati a vendere il raccolto o a lavarsi con l’acqua che scola dalle colline. Ristoranti improvvisati in capanne di legno con la scritta “chez juditte”, saloni da barba ricavati in piccole capannine con sopra scritto “coiffeur”. Piccole baracche con i resti di una capra scuoiata e appesa all’esterno indicano che lì si stanno preparando le brochette, i locali spiedini di carne. I poveri in Burundi sono tanti, tantissimi, anzi, si può dire che escludendo i politici corrotti e il clero il resto è tutto povertà. Certe scene viste in televisione fanno un altro effetto viste dal vivo. I meri interessi di potere e i pregiudizi razziali fanno morire la gente di un Paese bello come il Burundi. Manco a dirlo chi paga le conseguenze maggiori sono sempre loro, i bambini.

In Burundi i bambini sono un po’ speciali, rispetto a tutti gli altri bambini. Innanzitutto godono dell’innocenza propria dei bambini di tutto il mondo, poi sono sorridenti. Basta incontrarli per strada e ti sorridono, forse perché sei bianco, ma quando li incontri ti salutano e sorridono. Poi hanno una gran voglia di giocare, basta pochissimo, un colpo di tosse simulata, e inizia una gara a chi ride più forte e più a lungo.

I giochi che normalmente fanno i bambini burundesi sono molto semplici: una bicicletta di legno, una lattina adattata a macchinina e poi costruiscono i mattoni di fango per fare la casa, trasportano pesanti bidoni d’acqua sulla testa oppure aiutano la mamma a zappare la terra.

I bambini del Burundi sono speciali perché muoiono in silenzio. Si addormentano lungo il ciglio della strada e se non vengono calpestati da una jeep, il mattino dopo si risvegliano in paradiso colpevoli di aver preso la malaria in un Paese che non fornisce alcun tipo di assistenza.

I bambini che vanno a scuola, non hanno libri, quaderni o altro sussidio utile allo svolgimento delle lezioni. Lo stato non fornisce nulla, i più fortunati sono quelli che trovano assistenza presso le suore che oltre a fornire quaderni e vestiti pagano anche la retta scolastica.

Frequentare la scuola dell’obbligo significa pagare la retta mensile. In Burundi si paga tutto, proprio tutto, le informazioni, la scuola, le prenotazioni aeree, l’assistenza sanitaria. Di ospedali non ce ne sono tanti, sono 2 o 3 i punti di “eccellenza” in tutto il Burundi. Bujumbura ha un unico ospedale neuropsichiatrico che copre anche il Ruanda. A Ngozi hanno appena ristrutturato un vecchio ospedale spendendo più di 3 miliardi di franchi Bu, e a Kiremba c’è un ospedale gestito da italiani, dove le cose vanno meglio che nelle strutture gestite dallo stato.

Camminando lungo i corridoi degli ospedali o nei giardini malconci dei loro cortili, si incontrano donne che sembrano essere lì da chissà quanto tempo. Beh! È vero, sono donne che attendono. Aspettano che venga loro restituito il corpo del proprio figlio deceduto, o che venga scagionato il proprio marito o figlio. Se non si paga la visita medica, qui si rimane ostaggi dello stato. Vieni arrestato e obbligato a rimanere in ospedale fin quando qualcuno non paga. Nel frattempo non importa se vivi o muori, quello che importa è che per tornare a casa devi pagare.