Vermicino, la tragedia rimossa

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La storia di Alfredino Rampi, il bambino caduto nel pozzo

Provate a chiedere di Vermicino a chi ha oggi meno di trent’anni. E poi fate la stessa domanda a chi invece nel 1981 era già grande abbastanza per vedere la televisione. Ai primi quel nome non dirà nulla. Nei secondi riaprirà una ferita mai sanata, un lutto mai elaborato. Tra le tantissime tragedie della nostra storia nazionale, quella di Vermicino è insieme la più seguita e la più rimossa. Di tanti altri avvenimenti drammatici, conserviamo una parvenza di memoria collettiva, se pure spesso confusa o distorta. È invece difficile che un ragazzo del 2007 non abbia mai sentito nemmeno nominare Ustica o Piazza Fontana. È quasi impossibile che sappia qualcosa della tragedia di Alfredino Rampi. Prova a colmare questo vuoto Vermicino. L’italia nel pozzo, libro di Massimo Gamba, pubblicato nel 2007. Un libro impegnativo, dal punto di vista psicologico, per i milioni di italiani che vissero in diretta quel dramma. Perché, come scrive Niccolò Ammaniti nella quarta di copertina, quella di Vermicino è “una storia italiana. Una storia senza lieto fine. In un pomeriggio afoso del giugno 1981 il piccolo Alfredo Rampi, sei anni, viene inghiottito da un pozzo artesiano, a Vermicino. Ora dopo ora in quel budello ci finisce tutta l´Italia. Va in onda una diretta non stop che ipnotizza la nazione intera per poi lasciarla inebetita e depressa quando il finale non sarà quello atteso da tutti. (…) La tragedia del piccolo Alfredino è una storia che ha segnato profondamente tutti quelli che l´hanno vissuta, anche solo come spettatori. Poi è finita in qualche angolo remoto della nostra coscienza, individuale e collettiva. Ma nessuno l´ha mai dimenticata. Ora è giunto il momento di raccontarla”.

Il bambino nel pozzo
Il 10 giugno 1981 verso le sette di sera, il piccolo Alfredo Rampi di sei anni cade in un pozzo artesiano largo 30 cm e profondo 80 metri a Vermicino, poco lontano da Roma. Il bimbo ha una malformazione cardiaca piuttosto rara, che comporta una minore tolleranza della fatica. Incredibilmente, il piccolo sopravviverà quasi tre giorni, al buio, al freddo e solo con un po’ di acqua zuccherata calata attraverso un tubicino. La Protezione civile, istituita per legge nel 1970, non esiste ancora. I soccorsi sono perciò affidati ai Vigili del Fuoco, diretti dal comandante provinciale di Roma Elveno Pastorelli. Inizialmente i pompieri provano a calare una tavoletta di legno, simile a quella di un’altalena. Ma la tavoletta si incastra a venti metri di profondità, mentre Alfredino è, almeno all’inizio, a 36 metri. Quella tavoletta costringe i soccorritori a scavare un tunnel parallelo per raggiungere il bambino da sotto. Ma le cose si mettono subito male: il terreno è più resistente del previsto e le trivelle si inceppano.

La voce di Alfredino
Nel pozzo viene calato un microfono per comunicare con Alfredino. I pianti disperati del piccolo vengono trasmessi al Tg 2 delle 13 dell’11 giugno. Da quel momento la tragedia diventa un fatto nazionale, seguito da milioni di persone sconvolte. Il microfono consente tuttavia al pompiere Nando Broglio, papà di tre bambini, di “distrarre” Alfredino cantando con lui le canzoni dei cartoni animati. È quella l’unica assistenza psicologica – generosa quanto improvvisata – che si riesce a dare a un bambino di sei anni, imprigionato al buio e al freddo sotto terra. Per le perforazioni del secondo pozzo non viene consultato nemmeno un geologo. Errori tragici, consumati in un contesto politico e sociale da brividi.

L’Italia del 1981
Un Paese nella tempesta. Sette mesi prima un terremoto ha fatto 3.000 vittime in Irpinia. Interi paesi distrutti, soccorsi lenti e inefficienti. Il 13 maggio Papa Giovanni Paolo II è miracolosamente sopravvissuto all’attentato del turco Ali Agca. Lo scandalo P2 fa tremare l’Italia. Il governo Forlani è costretto alle dimissioni e il presidente della Repubblica Sandro Pertini affida l’incarico di formare un nuovo esecutivo al repubblicano Giovanni Spadolini. Sarà il primo Presidente del Consiglio non democristiano in 35 anni di repubblica. Il terrorismo continua ad ammazzare. Le Brigate Rosse, proprio il 10 giugno, sequestrano Roberto Peci, fratello di Patrizio, primo pentito delle Br. Nelle mani dei terroristi rossi ci sono anche l’ingegnere Renzo Sandrucci, direttore della produzione dell’Alfa Romeo, e Giuseppe Taliercio, Direttore del Petrolchimico di Porto Marghera. Soltanto Sandrucci verrà rilasciato, il 23 luglio. Peci e Taliercio saranno ammazzati rispettivamente dopo 46 e 54 giorni di prigionia. Ma per tre giorni il Paese dimentica il resto e segue col fiato sospeso quanto accade a Vermiicno.

Errori su errori
Dall’alba dell’11 giugno, intorno al pozzo si raccoglie un piccolo gruppo di speleologi, convinti di poter salvare il piccolo. Tra loro, Tullio Bernabei, speleologo del soccorso alpino, che raggiunge la tavoletta e prova a segarla. Risalito per problemi tecnici, viene fermato e non riesce più a farsi calare nel pozzo. Pastorelli si convince che il pozzo parallelo è l’unica via di salvezza per Alfredino. Ma la trivellazione procede troppo a rilento. Vengono provate tre macchine perforatrici, con evidente spreco di tempo. Una massa rocciosa a circa trenta metri di profondità complica maledettamente le cose. Si arriva così a venerdì 12 giugno. Nelle prime ore del pomeriggio, sembra imminente il salvataggio di Alfredino. Tanto che i telegiornali non interrompono il collegamento e inizia così una diretta fiume, destinata a durare oltre 18 ore. Sul posto accorre anche il presidente della Repubblica Sandro Pertini. Nelle case si rimane incollati alla tv. Sembra che, in mezzo a tante disgrazie, gli italiani possano finalmente assistere a un evento positivo.

L’inquadratura fissa
La televisione italiana non è ancora attrezzata per dirette di questo tipo. C’è una sola telecamera Rai intorno al pozzo. L’inquadratura è fissa, per un piano sequenza interminabile e claustrofobico. Gli italiani vedono solo una folla indistinta da cui ogni tanto si leva un’indicazione o un applauso, quando le cose sembrano mettersi bene. Gli inviati non sanno bene come gestire la cronaca. Ogni tanto affidano l’audio direttamente ai soccorritori. È un flusso continuo di speranza, disperazione, illusioni e angoscia. Dalle 14.00 alle 20.00 del 12 giugno viene registrata una media di 12 milioni di telespettatori. Rai Uno e Rai Due seguono l’evento a reti unificate. Nel pomeriggio, anche Rai Tre, nata da appena due anni, si collega per due ore. È uno spartiacque per la storia della nostra televisione. Secondo alcuni, è il primo (tragico) reality show. A tragedia conclusa, si scatena una polemica enorme sulla scelta della Rai. Era giusto fare una diretta così lunga? Le riprese hanno influenzato l’esito? Se ne parla ancora oggi.

La doccia fredda: Alfredino è più in basso
Verso la sera del venerdì 12, Pastorelli deve arrendersi: la roccia non cede, il pozzo parallelo non può arrivare sotto i 36 metri. Ma calarsi dall’imboccatura del pozzo è ancora impossibile per via della tavoletta. Cercare di rimuoverla ora sarebbe forse ammettere di aver sprecato due giorni. Si opta per una via di mezzo. Si scava il corridoio di collegamento tra i due pozzi per prendere Alfredino dall’alto. Lo scavo procede in modo lentissimo. I pompieri scavano con le mani, per paura di ferire Alfredino con i detriti, ma il terreno non cede. Quando finalmente il diaframma cede, Alfredino non si trova. È scivolato a 61 metri. Colpa delle vibrazioni della scavatrice? Non si capisce. A questo punto rientrano in gioco gli speleologi: occorre qualcuno che riesca a calarsi attraverso quel budello per i trenta metri che separano i pompieri da Alfredino.

I tentativi di Angelo Licheri e Donato Caruso
Si presenta Angelo Licheri, un uomo magrissimo, di professione tipografo, senza alcune esperienza di speleologia. Alle 23,50 di venerdì 12 giugno Licheri viene calato nel cunicolo. Raggiunge Alfredino ma non riesce a tiralo su. L’imbracatura non si infila, il corpo è reso scivoloso dal fango. Alfredino sta ormai soffocando per il fango e la tante ore trascorse nel pozzo. Licheri tenta l’impossibile: rimane a testa in giù per 45 minuti, più del doppio del limite previsto. Per sette volte Alfredino gli scivola. Torna su in evidente stato confusionale, con ferite su tutto il corpo. Dopo di lui, si cala un altro volontario, Donato Caruso. Neanche lui riesce a tirare su Alfredino che è ormai rantolante. All’alba di sabato dal microfono calato nel pozzo non si sente più nulla. Un medico conferma che Alfredino è morto.

Il silenzio
In tutto il Paese cala un silenzio cupo e disperato. La tragedia viene rimossa. Tutti si sentono sconfitti e traditi. Sulla famiglia piovono le accuse più assurde e infamanti. Un dolore senza fine. Attorno al pozzo, per altri due giorni rimane una folla di curiosi e sciacalli. Ventimila persone decidono di passare il weekend sul luogo della tragedia, con tanto di venditori ambulanti di porchetta e panini. Il pubblico ministero Giancarlo Armati decide di far congelare il corpo del povero Alfredino con dell’azoto liquido e di far scavare un altro tunnel, con una macchina più potente e operai specializzati. Per concludere l’operazione ci vorrà quasi un mese. Il funerale di Alfredino Rampi si tiene il 17 luglio del 1981 nella Basilica di San Lorenzo Fuori Le Mura.

La vicenda giudiziaria
L’autopsia rivela alcuni elementi sorprendenti. Nel pozzo il bambino si trovava come fosse seduto, con le gambe ritirate ad angolo retto in avanti. Il braccio sinistro era dietro la schiena, l’altro era libero. Alfredino ha inoltre una ferita sulla testa. Sotto la maglietta viene trovata una fettuccia di quelle usate per trasportare gli zaini, con un anello metallico molto largo. Perché Licheri e Donato non hanno agganciato Alfredino con quell’anello? Caruso sostiene di non aver visto l’imbracatura, forse perché era coperta dal fango. Licheri sostiene invece di aver messo lui quell’imbracatura. Questa versione è smentita seccamente da Pastorelli: non solo perché quel tipo di imbracatura non era a disposizione dei soccorritori, ma soprattutto perché non sarebbe stato tecnicamente possibile infilarla ad Alfredino in quelle condizioni. Nel 1982 vengono rinviati a giudizio per omicidio colposo l’amministratore del fondo agricolo in cui si trovava il pozzo, e il titolare della ditta che aveva eseguito lavori di sbancamento successivi allo scavo. La posizione del primo viene stralciata per gravi problemi di salute (morirà di lì a poco, dopo ben tre infarti), il secondo viene assolto nel 1987, perché al momento del fatto aveva già concluso i lavori.

La nuova inchiesta del 1987
Nel febbraio 1987 il Pubblico Ministero Armati avvia un’altra inchiesta, partendo dalle contraddizioni emerse dalla ricostruzione delle fasi del salvataggio. È convinto che Alfredino non sia caduto accidentalmente nel pozzo, ma sia stato calato lì dentro da qualcuno. Vengono riascoltati tutti i testimoni. Il vigile del fuoco Mario Gonini che si trovava nella piccola galleria scavata tra il cunicolo e il pozzo di soccorso, sostiene che Licheri non aveva la corda ritrovata sul corpo di Alfredino. Ma Licheri insiste con la sua versione. C’è poi un altro elemento inquietante: due operai affermano di aver chiuso l’imboccatura del pozzo con una grossa lastra di ferro coperta con grosse pietre e con due palanche di legno. Alfredino non avrebbe mai potuto aprire da solo quella copertura. Ma Armati non riesce ad arrivare a nulla e nel novembre 1987 chiede l’archiviazione definitiva. Dalla tragedia – senza colpevoli ufficiali – di Vermicino arriva l’impulso decisivo per creare finalmente la Protezione civile. Da tutta la vicenda esce un’Italia diversa. È la conclusione amarissima di un decennio tragico. Di lì a poco cambierà tutto: la politica, la società, l’economia. E la televisione. Ripensare a quei terribili giorni del 1981 è sicuramente doloroso, ma può rivelarsi utile.