Mistero Birmano

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Il Myanmar è vicinissimo all’epicentro del maremoto del 26 dicembre 2004, ma denuncia pochissime vittime. Bizzarria della natura o propaganda della dittatura militare?

Secondo il Programma alimentare mondiale (Pam), il Myanmar (ex Birmania) sarebbe rimasto “relativamente incolume” dallo tsunami che il 26 dicembre 2004 ha provocato oltre 150mila morti tra Indonesia, Sri Lanka, India, Thailandia e Maldive. Secondo i dati ufficiali forniti il 27 dicembre dalla giunta militare che governa il Paese, il maremoto avrebbe provocato 60 morti, 43 dispersi, 21 feriti. Cifre ritenute poco attendibili da tutti gli osservatori, visto che il Myanmar si trova molto vicino all’epicentro del maremoto. La dittatura di Yangon (ex Rangoon) perciò è stata subito accusata di voler coprire una realtà molto più tragica. Anche perché “fonti non ufficiali” parlavano di centinaia di pescatori dispersi.

Il 5 gennaio 2005 il colpo di scena: in una nota ufficiale l’Onu sostiene la versione del governo di Rangoon e il segretario di stato americano Colin Powell, in missione nell’area colpita dallo tsunami, dichiara che “le foto fatte dal satellite suggeriscono che il territorio birmano non è stato colpito così fortemente come le altre nazioni della regione. Qual è la verità? Difficile capirlo. In Myanmar vige una dittatura che, che tra quelle che infestano tutto il mondo, è una delle più feroci e longeve. Una dittatura poco conosciuta dall’opinione politica mondiale e sopportata con qualche imbarazzo dagli organismi internazionali.

Myanmar, un tempo Birmania
Dal 18 giugno 1989 il Paese ha cambiato il suo nome da Birmania (Burma, nel mondo anglosassone) in Myanmar. E’ una delle bizzarrie di una dittatura che ha resistito ai cambiamenti epocali dell’ultimo decennio del secolo scorso. Una dittatura che – con volti diversi – dura da più di quarant’anni.

Droga, turismo e violazioni dei diritti umani
Il Paese è governato dal Consiglio per la pace e lo sviluppo dello stato (Spdc), composto unicamente da militari. Aboliti tutti i partiti, repressa qualsiasi forma di dissenso. Si calcola che i prigionieri politici siano quasi duemila. Molti di loro sono condannati a pene fino a 50 anni di carcere per reati d’opinione. I militari usano il pugno di ferro anche contro i movimenti indipendentisti. Negli anni passati, è stato accertato l’uso di armi chimiche contro l’etnia karen. Ambiguo anche il rapporto con le organizzazioni criminali dedite alla produzione e al traffico della droga. Alcuni noti narcotrafficanti (il Myanmar è il secondo produttore mondiale di oppio dopo l’Afghanistan) agiscono indisturbati o addirittura protetti dai militari. I proventi della vendita della droga sono stati investiti nella costruzione di grandi catene alberghiere per turisti stranieri. Proprio quei turisti che ora – a causa dello tsunami – potrebbero decidere di stare alla larga dal Myanmar, assestando così un colpo da ko alla sua stagnante economia.

Il golpe del 1962
Oggetto degli interessi britannici fin dall’Ottocento, diviene nel 1919 provincia dell’impero anglo-indiano. Nel 1937 gli Inglesi la separano dall’India e le conferiscono lo stato di colonia dotata di organi governativi nazionali. Nel corso della seconda guerra mondiale subisce l’occupazione giapponese. E diventa uno dei fronti più drammatici, anche perché su di esso si confrontano le strategie degli Alleati, almeno in questo caso non convergenti. Gli Americani vogliono che a tutti i costi sia riconquistata almeno la Birmania settentrionale, per farvi passare i rifornimenti alla Cina, nella quale sono impegnati in misura massiccia. Churchill, che racconta questi eventi nella sua storia (La seconda guerra Mondiale – Edizione condensata, Rizzoli editore, pag. 1128 sgg.), sostiene che non “valesse la pena d’impiegare in tale impresa una così ingente quantità di materiali e di manodopera” – bisognava infatti costruire una camionabile; ma poi fu costretto a cedere, prendendo atto che la psicologia nazionale degli Americani “è tale che, quanto più è arduo un progetto, tanto più essi s’impegnano con ardore e tenacia per tradurlo in realtà”.

Vinta la guerra e liberata tutta l’area dal pericolo giapponese, la Birmania ottiene l’indipendenza nel 1948. Il premier U Nu, deve affrontare una situazione a dir poco caotica. Il nuovo stato è dilaniato dalla guerriglia comunista e dalla ribellione armata dei karen, uno dei principali gruppi etnici stanziati nella parte sudorientale del paese. Anche gli shan (altro gruppo etnico stanziato vicino al confine con la Thailandia) reclamano autonomia. Dopo un decennio di grande instabilità, nel 1962 un colpo di stato porta al potere il generale Ne Win.

Un regime socialista anomalo
Nasce così una dittatura sanguinaria. Il Consiglio rivoluzionario abolisce tutti i partiti di opposizione e opta per la “via birmana al socialismo”, attuando una nazionalizzazione su vasta scala. Tuttavia, in campo internazionale Ne Win mantiene la Birmania tra i Paesi non allineati. La guerriglia comunista, sostenuta dalla Cina, continua per anni a dare del filo da torcere ai militari. Nel 1974 viene promulgata una nuova Costituzione, con la quale il potere passa dal Consiglio rivoluzionario a un’Assemblea popolare capeggiata da Ne Win e il nome del paese muta in Repubblica socialista dell’Unione birmana. Nel 1981 Ne Win lascia la presidenza a San Yu, riservandosi la carica di segretario generale del Partito del programma socialista birmano, l’unico legale.

La svolta del 1988
La Birmania conosce un costante declino economico. Nel marzo e nel giugno del 1988, l’improvvisa svalutazione della moneta scatena violente proteste antigovernative. Il regime risponde con la forza: in sei settimane vengono uccise oltre tremila persone. Alla fine Ne Win si dimette, ma un nuovo colpo di stato porta al potere il generale Saw Maung.

La lotta di Aung San Suu Kyi
Nel frattempo l’opposizione democratica ha finalmente trovato una leadership. E’ Aung San Suu Kyi, figlia di Aung San, il padre della Birmania indipendente. La sua Lega nazionale per la democrazia costringe i militari a reintrodurre il multipartitismo e a indire libere elezioni nel 1990.

Le elezioni del maggio 1990 sanciscono la vittoria schiacciante del partito di Aung San Suu Kyi, ma i militari vietano all’assemblea di riunirsi, e scatenano la repressione. Nel 1991 ad Aung San Suu Kyi – tenuta agli arresti domiciliari – viene assegnato il premio Nobel per la pace.

Il 24 aprile 1992 il potere passa al generale Than Shwe, che accenna a qualche timida e inconcludente trattativa con l’opposizione. I militari sostengono di voler restaurare la democrazia, ma procedendo con cautela, per evitare la disgregazione del Paese. Nel 1995 sono revocati gli arresti domiciliari di Aung San Suu Kyi, che tuttavia rimane sotto stretta sorveglianza.

Tira e molla: ma la libertà non arriva
Da allora la leader democratica vive in una situazione paradossale, tra rilasci, detenzioni, sparizioni temporanee, misteriosi ricoveri, imboscate e provocazioni. I militari, dopo il conferimento del Nobel, non possono infierire sulla loro nemica numero uno. Ma non vogliono nemmeno lasciarle troppo spazio. Aung San Suu kyi, dal canto suo, non intende abbandonare il Myanmar per non privare l’opposizione dell’unico punto di riferimento conosciuto a livello internazionale.

Il Dipartimento di Stato americano ha definito la detenzione della leader dell’opposizione “oltraggiosa e inaccettabile” e ha applicato la Legge sulla Democrazia e la Libertà, che prevede il blocco di tutte le importazioni e diverse sanzioni economiche, tra cui il sequestro di 13,3 milioni di dollari in transazioni coinvolgenti il governo birmano. Ma recentemente, nei rapporti tra Usa ed ex Birmania, si è verificata una novità a dir poco sconvolgente.

Il Myanmar vuole il nucleare
La notizia è del giugno 2004. Il Myanmar vuole dotarsi di tecnologie nucleari tramite l’assistenza della Corea del Nord. Per 200 milioni di dollari Usa, Pyongyang si sarebbe impegnata a fornire tecnici e componenti per la costruzione di un impianto a Natmauk, nella regione del Myothit.

Il Myanamar ha aderito nel 1992 al Trattato contro la proliferazione nucleare che permette l’utilizzo di tecnologia nucleare per scopi civili, pur proibendone la conversione a fini militari. Questo consente ai militari una certa libertà di azione che preoccupa un po’ tutti i Paesi vicini. Il regime militare ha smentito categoricamente questi sospetti. Washington vigila, temendo che un nuovo asse Myanmar-Corea del Nord faccia esplodere un’area già carica di tensioni. Lontano dai riflettori della stampa mondiale, il Myanmar sembra diventare un Paese sempre più misterioso.