Golpe Borghese

Storia e PoliticaCommenti disabilitati su Golpe Borghese

Cosa accadde a Roma la notte del 7 dicembre 1970?

Il 10 giugno 2011 il boss mafioso Totò Riina è stato assolto dall’accusa di aver sequestrato e ucciso Mauro De Mauro. Il giornalista del quotidiano palermitano venne rapito sotto casa in viale delle Magnolie, il 16 settembre 1970, e ucciso col metodo della ”lupara bianca”. La fine del giornalista venne decisa perché De Mauro aveva scoperto il progetto del golpe Borghese (fallito il 7 dicembre 1970) che prevedeva la complicità tra Cosa nostra e personaggi della destra eversiva capitanati dal “principe nero” Junio Valerio Borghese.

L’eventuale pubblicazione di articoli di De Mauro avrebbe fatto fallire il progetto golpistico e per questo qualcuno chiese alla mafia di eliminare il giornalista. Questa la tesi dei pm. All’ indagine hanno contribuito i collaboratori Gaetano Grado, Gaspare Mutolo, Francesco Marino Mannoia e Franco Di Carlo. Secondo questi ex mafiosi, i picciotti che parteciparono al delitto sono tutti morti: Mimmo Teresi, Emanuele D’ Agostino e Stefano Giaconia, appartenenti alla cosca del boss Stefano Bontade.

Quella notte di dicembre
È uno dei tanti misteri dell’Italia repubblicana. È ormai certo che nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 (la notte dell’Immacolata) gruppi di estrema destra legati al principe Junio Valerio Borghese, ex comandante della X Mas fascista, tenta un colpo di stato con l’appoggio di una colonna armata di guardie forestali e di una parte dei servizi segreti.

Il contesto politico
Il 1970 è un anno drammatico e cruciale. L’inchiesta sulla strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) segue ancora la pista anarchica, che si dimostrerà errata soltanto nel 1971. Finito l’autunno caldo della contestazione studentesca e delle lotte operaie, il Paese vive un momento di grande instabilità. Sono ben tre i governi che si succedono durante l’anno. Dall’agosto 1969 Mariano Rumor guida un monocolore Dc che fa gridare allo scandalo per il numero di poltrone: 27 ministri e 56 sottosegretari. Indro Montanelli accusa: “Il parlamento si e’ ridotto a un parco buoi”. A marzo Rumor succede a se stesso con un quadripartito Dc, Pri, Psi e Partito socialista unitario (denominazione che i socialdemocratici assumono tra il 1969 e il 1971). Ad agosto Emilio Colombo subentra a Rumor, con un quadripartito formato dalle stesse forze.

La nascita delle Regioni
Con ventidue anni di ritardo rispetto al mandato costituzionale, nascono le Regioni. Fino ad allora la Dc ha ostacolato l’approvazione della legge che finanziava la nascita dei nuovi soggetti amministrativi, nel timore di perdere potere nelle regioni tradizionalmente schierate a sinistra. Il 7 giugno si svolgono le prime elezioni regionali: la Dc ha il 37,8 per cento, il Pci il 27,9 per cento, il Psi il 10,4 per cento, il Psu il 7, l’Msi il 5,3 per cento, il Pli il 4,7 per cento, il Psiup il 3,2 per cento e il Pri il 2,9 per cento.

La rivolta di Reggio Calabria
Reggio Calabria e Catanzaro si contendono il ruolo di capoluogo della Calabria. A Reggio la protesta è guidata dall’esponente del Movimento sociale Ciccio Franco al grido Boia chi molla. Per oltre due mesi ci sono barricate, blocchi stradali e scontri con le forze dell’ordine. Il Governo invia l’esercito. Il bilancio finale è di 2 morti, 230 feriti, 300 arresti, tredici attentati dinamitardi, trentadue blocchi di strade porti e aeroporti, sei assalti alle prefetture, quattro alla questure, sei attentati sui treni.

Statuto dei lavoratori
Il 20 maggio 1970 Il Consiglio dei ministri approva, su proposta del ministro per il lavoro e la previdenza sociale Giacomo Brodolini, uno schema di disegno di legge “sulla tutela della libertà, sicurezza e dignità dei lavoratori nei luoghi di lavoro”. Vede così la luce lo Statuto dei lavoratori, atteso da decenni. Si tratta della conquista più importante delle lotte sindacali degli ultimi anni Sessanta. È un segnale netto. Positivo per milioni di lavoratori, allarmante per chi teme spostamenti a sinistra della politica italiana. Il 1° dicembre viene approvata in via definitiva la legge sul divorzio. È un passaggio epocale. “Ankara, Atene, adesso Roma viene”, scandiscono i militanti di sinistra. La paura è che dopo il colpo di stato in Turchia (1960) e quello in Grecia (1967), anche in Italia arrivino i militari a “normalizzare” una situazione in piena evoluzione.

Nome in codice Tora Tora
La sera del 7 dicembre 1970 un gruppo di Avanguardia nazionale si riunisce nei cantieri di Montesacro del costruttore Remo Orlandini, legato al Sid di Vito Miceli. Poco fuori Roma una colonna armata di guardie forestali proveniente da Cittaducale (Rieti) attende ordini. Un’altra unità di neofascisti entra nell’armeria del ministero dell’Interno. Il quartier generale del golpe segue dal quartiere Nomentano. Oltre a Junio Valerio Borghese, ci sono il generale a riposo dell’Aeronautica Giuseppe Casero e il maggiore di polizia Salvatore Pecorella. Il piano è semplice: bisogna occupare il ministero degli Interni, quello della Difesa e la sede della Rai. Borghese leggerà un proclama alla nazione e poi provvederà alla mobilitazione generale delle Forze Armate. Bande paramilitari hanno il compito di sequestrare e uccidere i principali esponenti della sinistra politica e sindacale. Il nome in codice dell’operazione è “Tora Tora”, il messaggio cifrato con cui l’esercito giapponese aveva ordinato l’attacco alla base Usa di Pearl Harbor il 7 dicembre 1941.

Secondo la ricostruzione che nel 1995 il giudice Salvini invierà alla Commissione parlamentare Stragi, nel Golpe Borghese avrebbe avuto un ruolo chiave anche Licio Gelli. Il venerabile capo della P2 sarebbe dovuto entrare nel Quirinale e arrestare il presidente Giuseppe Saragat. Lui stesso avrebbe però ordinato il dietrofront al commando che era già all’interno dell’ascensore che porta alla residenza presidenziale. Perché?

Qualcosa va storto
Il Golpe Borghese fallisce all’ultimo minuto. Si è trattato di un avvertimento ai politici, un’intentona, per dirla alla spagnola? O qualcosa è andato storto? La ritirata è frettolosa e caotica. Centinaia di uomini armati ripiegano verso i punti di partenza. Sono pieni di rancore per il fallimento dell’operazione. Per diverse ore la tensione è altissima. Poi scatta il “tutti a casa”.

Sui motivi del dietrofront non si è mai fatta chiarezza. Secondo alcuni un commando sarebbe rimasto bloccato in un ascensore della sede della Rai, facendo scattare l’allarme. Secondo altri, la presenza di un incrociatore sovietico al largo della coste italiane avrebbe scoraggiato i golpisti. L’unica cosa certa è che parte dei servizi segreti italiani sapeva e non intervenne.

La vicenda giudiziaria
Le prime notizie sul presunto golpe Borghese si diffondono pochi mesi dopo. Il 18 marzo 1971 il sostituto procuratore di Roma Claudio Vitalone firma i mandati di arresto per Junio Valerio Borghese, Remo Orlandini, Mario Rosa, Giovanni De Rosa, Sandro Saccucci e Giuseppe Lo Vecchio. L’accusa è “di aver preparato un programma di natura eversiva al fine di attentare alle istituzioni democratiche dello Stato”. Borghese è già al sicuro in Spagna. Ma non si raggiungono prove sufficienti e l’indagine viene archiviata. L’istruttoria riparte nel 1974, quando Giulio Andreotti, allora ministro della Difesa, consegna alla magistratura un rapporto del Sid, il servizio segreto militare dell’epoca, redatto dal successore di Vito Miceli, Gianadelio Maletti, in cui si conferma il tentativo di golpe.

Il primo processo
Junio Valerio Borghese muore in Spagna nel 1974 (secondo stefano Delle Chiaie a causa di un caffè opportunamente corretto…). Nel 1978 si celebra il processo a 76 imputati. Tra loro spiccano i nomi di Stefano Delle Chiaie, neofascista già coinvolto nel processo per la Strage di piazza Fontana; Sandro Saccucci (che in seguito ucciderà a Sezze un giovane comunista), il costruttore romano Remo Orlandini, il generale dell’Aeronautica Giuseppe Casero, il generale dell’Esercito Duilio Fanali, l’ex maggiore dell’Esercito Mario Rosa; il colonnello dell’Aeronautica Giuseppe Lo Vecchio, il colonnello dell’Esercito Amos Spiazzi e Luciano Berti, colonnello della Guardia Forestale di Città Ducale. Sono quasi tutti iscritti alla P2. Decono rispondere di insurrezione armata, cospirazione politica mediante associazione, tentativo di sequestro di persona, furto, detenzione e porto abusivo di armi ed esplosivi. L’ ex capo dei Sid Vito Miceli è accusato di aver protetto i golpisti. Nel luglio 1978 arrivano le sentenze: la Corte assolve Miceli perché “il fatto non sussiste”. Per gli altri imputati il processo si conclude con quarantasei condanne e trenta assoluzioni di vario tipo. La pena più pesante, dieci anni di reclusione, viene inflitta ad Orlandini; otto anni a Rosa, De Rosa e Lo Vecchio; cinque anni a Spiazzi e Delle Chiaie; quattro anni a Saccucci. La Corte riconosce tutti responsabili di cospirazione politica, ma li assolve dal reato di insurrezione armata (pena prevista l’ergastolo).

Fine
Il 29 novembre 1984 arriva la sentenza d’appello: assolti tutti i 46 imputati (“il fatto non sussiste”) dall’ accusa di cospirazione politica. Il 24 marzo 1986 la Cassazione conferma il giudizio di secondo grado. Un’inchiesta per insurrezione armata contro i poteri dello Stato, formalmente, è ancora pendente davanti alla procura di Roma.

Golpe da operetta? Tutt’altro
In pratica, la magistratura archivia il caso come un golpe da operetta. Tuttavia, in sede storiografica, si è oggi propensi a giudizi diversi. Secondo Giovanni Pellegrino, presidente dal 1994 al 2001 della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi e sul terrorismo, “dire che fu una buffonata significa innanzitutto far torto alla memoria di Borghese. Il mitico comandante della X Mas era un militare esperto non solo di guerra e di guerriglia, ma anche di relazioni internazionali. A tal punto che i Servizi segreti angloamericani lo sottrassero alla giustizia partigiana, salvandolo da una scura fucilazione”.

Il neofascista Paolo Oleandri ha raccontato: “Quando i gruppi armati della destra extraparlamentare (Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale) e alcuni reparti delle Forze Armate fossero riusciti a impadronirsi dei centri nevralgici del potere (Rai, presidenza della Repubblica,ministero degli Interni), sarebbe dovuto scattare un piano antiinsurrezionale esistente nelle casseforti del comando generale dell’Arma dei carabinieri. Questo piano prevedeva l’arresto, da parte dei carabinieri, per finalità antiinsurreizionali, di sindacalisti, esponenti politici e militari e altri interventi analoghi. L’attuazione di questo piano avrebbe consentito l’instaurazione di un regime militare, sostenuto da alcune forze istituzionali che avevano dato il loro tacito assenso all’intera operazione”. La verità su quella notte di dicembre è ancora molto lontana.