Il fine giustifica i mezzi?

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No, Machiavelli non l’ha mai detto. Rileggere Il Principe per sfatare un luogo comune tra i più volgari

”Il fine giustifica i mezzi”: qualsiasi fine (anche la vittoria ”sportiva”). Machiavelli non l’ha mai detto. Non c’è nessuno scritto suo né pubblico né privato in cui si legga questa frase. Si sospetta che gliel’abbiano attribuita i gesuiti, per squalificarlo. Ma possono essere stati anche i luterani, che rappresentavano Machiavelli come l’emblema della immoralità cattolico-romana. Al di là della filologia, ci si può  tuttavia chiedere se il suo pensiero politico possa essere espresso, sia pure in modo parziale, da questo assioma.

Ovviamente bisogna mettere in campo Il Principe. Machiavelli lo scrisse dopo la caduta della Repubblica fiorentina (1512), quando, esiliato dalla politica attiva, si pose il  problema di indicare una via d’uscita dalla crisi italiana. Nel Principenon si fa astratta teoria. L’analisi della politica, presente e passata, è sempre finalizzata all’azione. E’ stato definito un ”manifesto politico”, e tale è per molti aspetti, i più qualificanti.

La distinzione degli stati in repubbliche e principati, e dei principati in ereditari, nuovi e misti, è immediatamente proiettata verso il ”che fare oggi”, tant’è che, lasciata da parte la forma repubblicana, di cui si occupa nei tre libri dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, e dato un rapido sguardo ai principati ereditari e misti, Machiavelli si concentra sui principati nuovi. La ragione è politica.

Non esisteva uno stato, tra quelli ereditari o misti, che potesse, a suo giudizio, assumersi un ruolo del genere. Occorreva un uomo nuovo, capace di suscitare entusiasmi, di raccogliere attorno a sé energie finanziarie e militari. Un uomo che contasse soprattutto sulla sua virtù, parola che nel linguaggio machiavelliano è sintesi di coraggio e intelligenza, è la dote del vir: la virtus. Un profeta armato. Un nuovo Mosè. E’ vera la sua ammirazione per Cesare Borgia, ma limitatamente alla condizione di  chi diventa principe per fortuna d’altri (il padre, papa Alessandro VI).

E’ ai capitoli dal XV al XVIII che si applicano quelli che vogliono a tutti i costi attribuire a Machiavelli la paternità dell’assioma famigerato. Nel cap. XV, accingendosi a parlare dei ”modi” che il principe deve seguire nei suoi rapporti con i sudditi, l’autore dichiara di voler andare ”dietro la verità effettuale”, perché intende ”scrivere cosa utile a chi la intende”, parole nelle quali viene enunciato il metodo e indicato il fine (l’utile è  la politica). Tutti vorrebbero che il principe avesse tutte le qualità ”che sono tenute buone”. Ma ”la condizione umana non lo consente”, e allora il principe deve essere tanto saggio che sappia”fuggire l’infamia di quelli vizi che li torrebbano lo stato, e da quelli che non glielo tolgono guardarsi, se gli è possibile”.

Ma in che senso la condizione umana non lo consente? La risposta è nel cap. XVII. Parlando di ”crudeltà e pietà”, Machiavelli  si occupa di quello che oggi chiamiamo il problema della sicurezza e dell’ordine pubblico. E’ qui, nel ”bene essere” dei cittadini,  che lo stato trova o non trova la sua ragion d’essere. In certi casi il politico può somigliare al medico che per ”pietà” lascia incancrenire la piaga. Il principe deve ”tenere li sudditi suoi uniti e in fede”, e poiché il crimine non punito ”offende la universalità” dei cittadini e può ”generare disordini”, egli deve intervenire con la repressione più dura: ma procedendo ”in modo temperato, con prudenzia e umanità”. Chi non vorrebbe essere più amato che temuto? Ma gli uomini sono ”ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, cupidi di guadagno, e hanno meno rispetto (esitazione) a offendere uno che si facci amare, che uno che  si facci temere: perché l’amore è tenuto da uno vinculo  d’obbligo, il quale, per essere gli uomini tristi (tristo: meschino), da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai”.

Dunque, farsi temere è meglio: ma guai a farsi odiare. Il principe deve fuggire l’odio, e può farlo astenendosi ”dalla roba dei suoi cittadini e dalle donne loro”. Un richiamo al decimo e al nono comandamento? Anche. Ma è soprattutto l’avvertimento di chi conosce questa cruda  verità: ”gli uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio”.

‘La condizione che nol consente” è la natura umana. E’ stato sostenuto che rappresentandola nella sua realtà Machiavelli è ”radicalmente agostiniano”: il male dimora nell’uomo per retaggio originario. Osservazione niente affatto impropria, anche perché la predicazione savonaroliana deve essergli scesa nel profondo. Non è vero quello che grandi interpreti del suo pensiero, perfino Chabod, hanno detto sui suoi rapporti con Savonarola (1452-1498) e in genere con la religione. Nei confronti del  ”frate” l’ironia di una delle prime lettere, quella all’ambasciatore fiorentino a Roma (9 marzo 1498) è tutt’altro che conclusiva, e verso la religione, il cristianesimo in particolare, la sua considerazione va ben oltre la facile formula dell’instrumentum regni. E’ la catastrofe della repubblica, ma non solo,  a far riemergere Savonarola alla sua coscienza: ”Io credo al frate che diceva Pax, pax, et non erit pax” (Lettera a Francesco Vettori, 26 agosto 1513). Nel Principe è  profeta disarmato, e per questo ruinò nei suoi ordini nuovi: ma è  un profeta. Nei Discorsi il giudizio è più disteso e motivato: ”Essendo Firenze, dopo il 1494, stata riordinata nello stato suo con lo aiuto di frate Girolamo Savonarola, gli scritti del quale mostrano la dottrina, la prudenza, e la virtù dello animo suo  … Sa ciascuno quanto da frate Girolamo Savonarola fosse predetta innanzi la venuta del re Carlo VIII…” (I, 45, 56). Infine,  un brano tratto dai Decennali, opera in terza rima dantesca scritta nel 1504 sulle ”fatiche d’Italia di dieci anni”: ”Io dico di quel gran Savonarola,/ el qual, afflato da virtù divina,/ vi tenne involti con la sua parola;// ma perché molti temén la ruina / veder de la lor patria a poco a poco/ sotto la sua profetica dottrina,// non si trovava a riunirvi loco,/ se non cresceva o se non era spento/ el suo lume divin con maggior foco” (I, 152-161).

In Machiavelli il giudizio etico accompagna costantemente quello politico, talvolta lo sostanzia. Così la crisi italiana non è soltanto politica e militare, ma anche morale. E’ corruttela. E di essa sono responsabili in primo luogo gli uomini di Chiesa, che con i loro esempi rei hanno rovinato il paese (Discorsi, I, 12). Responsabile non la morale cattolica in sé presa, come si dirà in tempi di post-illuminismo, ma la viltà degli uomini che l’hanno interpretata (II,2). I buoni esempi d’altra parte sono decisivi per la Chiesa stessa, la quale fu ”ritirata verso il suo principio da Santo Francesco e da Santo Domenico, che con la povertà e  con lo esempio della vita di Cristo la ridussono alla mente degli uomini, che già vi era spenta” (III,1).

La situazione è gravissima, e il pessimismo indurrebbe a concludere che per l’Italia ormai non c’è via di scampo e che  dunque hanno ragione coloro che si abbandonano al destino o si  affidano alla provvidenza, e che in generale abbracciano una condotta lassista: lasciarsi governare dalla sorte, non insudare molto nelle cose.
Provvidenzialismo e fatalismo generano conseguenze paralizzanti, sia per la morale che per la politica. E allora, con una inversione grammaticale delle sue, tra le più drammatiche, Machiavelli libera il suo ragionamento verso l’ottimismo della volontà:
”Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi”.

Si noti bene: questo ragionamento, e su di esso si può dire tutto il pensiero politico di Machiavelli,  fa leva sul principio di libertà e di responsabilità, qui affermato mediante una proposizione finale. La libertà come postulato, che bisogna ammettere come imprescindibile e al quale si deve credere come per fede, se si vuole ragionare di politica e di morale. C’è insomma una radice volontaristica alla base della scienza politica machiavelliana. Ho sempre trovato strano che la critica non metta in evidenza il valore di questa finale.

Siamo all’inizio del cap. XXV, il penultimo,  del Principe. L’autore, sotto la spinta dell’entusiasmo, esprime sincera fiducia nelle capacità dell’uomo, particolarmente dei giovani, i quali di fronte alla fortuna sono meno cauti, più feroci e con più audacia la comandano. La conclusione è ormai pronta. L’esortazione finale riprende il tema dei profeti armati (cap.VI) e nello stile dei ”manifesti” lo immette nella realtà storica: l’Italia può essere redenta dalla sua corruttela da un principe nuovo che sappia e voglia prendere l’iniziativa politica. Il terreno è pronto per un  nuovo Ciro, per un nuovo Teseo, per un nuovo Mosè:”Dio non vuole fare ogni cosa, per non ci torre el libero arbitrio e parte di quella gloria che tocca a noi”. E’ giusto dire che qui finisce il Medio Evo e incomincia veramente la Modernità.

C’è un solo passaggio nel quale i fini e i mezzi sembrano correlati nel senso dell’assioma, ed è giusto affrontarlo. E’ il capitolo XVIII, che tratta della lealtà. Il principe si ispiri al mito del centauro. Eserciti la sovranità con forza e con intelligenza, conformando tutti i suoi gesti e tutte le sue parole all’immagine di sé che meglio la rappresenti, nella consapevolezza che i sudditi sono più impressionati dalle apparenze che dalla realtà: ”Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu sei”. Nel mondo non c’è che volgo, e il volgo guarda al successo, non ai mezzi usati per conquistarlo e per gestirlo:  ”Faccia dunque il principe di vincere e mantenere lo stato: i mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati”.

Gli uomini ”giudicano le cose dal fine”. Guardano ”più al fine che ai mezzi”. Osservazioni come queste si leggono anche in altre opere (Lettere, Discorsi).Ma non si faccia confusione. Che nella vita conti soltanto il successo e che l’uso dei mezzi per raggiungerlo sia moralmente neutro non è Machiavelli a teorizzarlo, ma, secondo lui, è la moltitudine a pensarlo. Egli registra , non senza amarezza, questa opinione, questa vulgaris opinio  e la segnala al principe perché ne faccia tesoro per apparire come la moltitudine se lo figura.

La generalità  dei cittadini si accontenta del fatto che lo stato ci sia, non si pone il problema dei mezzi adoperati per conquistarlo. Si aspetta che la sua sovranità si traduca in sicurezza e pace: in  ”bene essere”. In tal senso si può dire che ai suoi occhi il fine giustifica i mezzi.