C’era una volta Carosello

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Carosello nasce nel 1957, quando la Rai apre le porte alla pubblicità. Per vent’anni (fino al 1977) tutti i giorni alle 20,50 sarà uno degli appuntamenti televisivi più seguiti. La formula è, forse, l’esempio più alto dell’opera di “italianizzazione” della TV fatta dalla RAI. In Carosello si opera il più disinvolto parassitismo culturale, riciclando i numeri del teatro di rivista, del cinema e della TV stessa. Ogni scenetta dura 135 secondi ed è composta da due parti: nella prima una breve storia in cui non è mai nominato il prodotto reclamizzato; nella seconda (il “codino”), assai più breve (massimo 30 secondi), il messaggio pubblicitario. Come ha scritto Le Figaro, “Carosello è il contributo più originale dato dall’Italia alla storia della televisione”.

Non era vera e propria pubblicità, ma uno spettacolo, un “raccontino d’autore” che si avvale di nomi illustri, in veste di autori, registi e attori: Age e Scarpelli, Luigi Magni, Gillo Pontecorvo, Ermanno Olmi, Sergio Leone, Totò, Macario, Dario Fo, Vittorio Gassman, persino Edoardo De Filippo. I limiti di tempo imposti alle storie, anziché rivelarsi un limite alla creatività, diventano vere e proprie formule retoriche, costruzioni metriche. L’idea originaria di Carosello è quella di dare una radice nella tradizione nazionale a quella che proprio in questi anni comincia ad essere chiamata “società dei consumi” e alle sue immagini dispersive. Non mancano, naturalmente, le critiche. “La fiera subdola delle vanità”, “una lezione di imbecillità collettiva”, “un monumento kitsch”, “una forma di perversa pedagogia” sono solo alcune delle accuse mosse in quegli anni a Carosello. Ma il successo rimarrà sempre altissimo ed anche molti critici rivedranno i loro giudizi negativi. In Carosello la TV italiana opera una sperimentazione linguistica che riproporrà poi in altri generi, soprattutto nel “varietà”. Lo stile preferito è quello della parodia: i racconti sono ridotti allo scheletro della fabula, usando le tecniche espressive proprie del fumetto o, meglio ancora, della vignettistica.

Questo spirito pedagogico “diffuso” che abbiamo individuato non agisce solo in campo culturale e cognitivo. Il progetto divulgativo ha il merito enorme di stabilire nuovi codici di convivenza, più avanzati e consapevoli. Nel 1964 Umberto Eco azzarda un bilancio dei primi dieci anni di TV, sostenendo che la televisione non ha solo rivelato l’esistenza di un mondo nuovo, ma ha dimostrato che in questo mondo esistono realmente possibilità di benessere. Scrive su Noi donne: “Anche trasmissioni più inutili o negative, paradossalmente, hanno svolto una funzione di rottura. Cosa c’è di più banale di un annuncio pubblicitario che magnifica, grazie al sorriso di una bella figliola, le virtù di un detersivo o di un frigorifero? Eppure, pensiamo per quante donne italiane un annuncio del genere serve a ricordare ogni sera che esiste un mondo in cui una donna può avere un frigorifero. L’informazione sarà fonte di dispetto e di invidia, ma dispetto e invidia si sostituiscono a un sentimento ben più grande: l’ignoranza, il non sapere nulla dei frigoriferi, il credere che i frigoriferi appartenessero alla fiaba”. E’ sicuramente una provocazione drammatica (molti italiani non hanno nemmeno il cibo da mettere dentro un eventuale frigorifero), ma secondo Eco è comunque uno stimolo positivo perché mostra un’alternativa possibile. Ancora qualche anno e in Rai il tema della divulgazione e dell’alfabetizzazione troverà un’attenzione più esplicita e un’applicazione diretta con la nascita dei programmi dichiaratamente “scolastici”. Altri tempi. E altra Rai.