Caso Moro

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I 55 giorni più drammatici dell’Italia repubblicana

AGGUATO
Alle 9,15 del 16 marzo 1978 le Brigate Rosse rapiscono il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro e massacrano i cinque uomini della sua scorta.
L’agguato avviene a Roma, in via Mario Fani (zona Monte Mario) ed è impressionante per rapidità e precisione. In pochi minuti i brigatisti uccidono i due carabinieri che sono a bordo dell’auto di Moro (Domenico Ricci e Oreste Leonardi) e i tre poliziotti dell’auto di scorta (Raffaele Jozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi). Moro viene caricato a forza su una Fiat 132 blu. Pochi minuti dopo con una telefonata all’Ansa le stesse Br annunciano l’accaduto.
Nell’agguato la maggioranza dei colpi (49 su di un totale di 93 proiettili ritrovati dalle forze dell’ordine) è sparata da una sola arma. I testimoni parleranno di una sorta di Tex Willer, freddo e spietato. A distanza di 29 anni non si è ancora riusciti a dare un nome al killer. Uno dei tanti misteri del caso.
Aldo Moro è uno degli uomini politici italiani più importanti. Artefice negli anni Sessanta dell’apertura ai socialisti, è il principale interlocutore del Pci nella realizzazione del “compromesso storico” tra comunisti e democristiani che dovrebbe far uscire il Paese da uno stallo politico senza precedenti.
La mattina del 16 marzo Moro si sta recando alla Camera per il dibattito sulla fiducia al quarto governo Andreotti, il primo con l’aperto sostegno del Pci.
Comincia così un sequestro che getta il Paese nell’angoscia per 55 lunghissimi giorni.

La fine è nota: il cadavere di Moro è ritrovato il 9 maggio in una Renault rossa in Via Caetani, in pieno centro di Roma. Stando alla verità processuale, Moro sarebbe stato tenuto per tutti i 55 giorni a Roma, in un appartamento di Via Montalcini (zona Magliana). In molti credono che le prigioni siano state diverse.

BRIGATE ROSSE
Il sequestro Moro è l’atto più clamoroso della storia delle Br. Questa formazione, fondata da Alberto Franceschini e Renato Curcio nel 1970, sembrava ormai sgominata nel 1974, quando le forze speciali del generale Alberto Dalla Chiesa, riescono a infiltrarsi e ad arrestare i leader storici. Il solo leader che sfugge alle retate del 1974 è Mario Moretti che, poco alla volta, muta l’organizzazione delle Br, esasperandone l’aspetto militare a discapito di quello politico. Le Br sono strutturate secondo la “compartimentazione”: piccoli gruppi molto chiusi, per evitare infiltrazioni e delazioni. Le Brigate rosse possono contare su diverse decine di militanti e un numero imprecisato di “irregolari”, ovvero persone non in clandestinità che svolgono mansioni non militari.
Pochi giorni prima del sequestro Moro, a Torino si era aperto il primo grande processo alle Br. Un processo tormentato, la cui prima udienza era stata continuamente rinviata per le continue defezioni dei giurati popolari. Le Br fanno paura.

COMUNICATI
Durante i 55 giorni del sequestro Moro le Brigate rosse recapitano nove comunicati con i quali, assieme alla Risoluzione della Direzione Strategica (cioè il massimo organo della formazione armata) spiegano i motivi del sequestro e danno informazioni sulle condizioni del prigioniero. Sono documenti lunghi, a volte quasi illeggibili. Non mancano errori di sintassi e stramberie: nel primo comunicato, commentando la situazione politica italiana, citano Battisti e Mogol parlando di “discese ardite e risalite”.
DC
Con Moro le Brigate Rosse colpiscono la Democrazia cristiana, partito di maggioranza relativa. Nel giugno 1976, la Dc è al 38 per cento, incalzata dal Pci di Berlinguer al 34,4. Moro è il candidato in pectore alla presidenza della Repubblica. A giugno le camere saranno chiamate a scegliere il successore di Giovanni Leone e sembra chiaro che spetterà a Moro dirigere dal Quirinale l’alleanza tra Pci e Dc. Con il suo assassinio, si chiude una stagione politica dell’Italia repubblicana e se ne apre un’altra di segno opposto. Di fatto, il compromesso storico muore il 9 maggio.
Alle 12,46 del 16 marzo riprendono i lavori alla Camera. Il governo Andreotti ottiene la fiducia alle 20,35: votano a favore Democristiani, comunisti, socialisti repubblicani, socialdemocratici, demonazionali e sinistra indipendente. Contro liberali, missini e demoproletari. Si astengono gli altoatesini della Volkspartei. Nella notte anche il Senato vota la fiducia.
Secondo alcuni, se non ci fosse stato il sequestro Moro, il Pci di Enrico Berlinguer non avrebbe mai votato un esecutivo che non presentava elementi di novità rispetto al precedente, un monocolore Dc che si reggeva grazie all’astensione dei comunisti (il cosiddetto governo della “non sfiducia”). Questo governo durerà poco più di un anno. La sua caduta porterà alle elezioni anticipate del giugno 1979 che vedranno una tenuta della Dc  e un sensibile calo del Pci.

ENIGMI
Tutto il caso Moro sembra segnato da una serie di misteri. Sei processi non hanno dissipato una serie incredibile di incongruenze e chiare contraddizioni. Ancora oggi non sappiamo quanti fossero i Br a Via Fani e come si svolse esattamente l’agguato. In una prima ricostruzione i killer erano soltanto quattro. Oggi si è portati a pensare che in tutta l’operazione fossero coinvolte almeno una ventina di persone.
Secondo la vedova Moro, il marito usciva abitualmente di casa portando con sé cinque borse: una contenente documenti riservati, una di medicinali ed oggetti personali; nelle altre tre vi erano ritagli di giornale e tesi di laurea dei suoi studenti. Subito dopo l’agguato sull’auto di Moro vennero però rinvenute solamente tre borse. Delle altre due non si è mai saputo nulla.
Di sicuro, attorno al luogo dell’agguato, si aggirano strani personaggi. Uno di questi, il colonnello del Sismi Guglielmi, legato all’ambiguo generale Musumeci (poi condannato per diversi depistaggi), ammetterà di trovarsi lì perché “invitato a pranzo da un amico”. Alle nove di mattina, naturalmente.
Ma oltre a questi enigmi, ci sono forse dei messaggi cifrati che Moro manda attraverso le sue lettere. Ne L’affaire Moro, Leonardo Sciascia suggerisce alcune chiavi di interpretazione. Ad esempio, nella sua prima lettera a Cossiga, Moro afferma di trovarsi “sotto un dominio pieno e incontrollato” (che vuol dire?) e suggerisce di far venire “qui a Roma” esponenti della diplomazia internazionale. Secondo lo scrittore siciliano, si tratta di un chiaro suggerimento di Moro sfuggito alla censura brigatista: “Mi tengono a Roma, sono in un condominio molto affollato e ancora non controllato”.

FOTOGRAFIE
Al numero 109 di Via Fani Gherardo Nucci scatta dal balcone di casa una dozzina di foto della scena della strage a pochi secondi dalla fuga del commando. Sua moglie,giornalista dell’Asca, consegna i rullini alla magistratura. E le foto spariscono, non se ne sa più nulla. Un altro mistero.

GRADOLI
Uno dei capitoli più incredibili di questa vicenda. Pochi giorni dopo il sequestro, in una seduta spiritica a cui partecipano diversi professori universitari di Bologna (tra cui anche Romano Prodi), il fantasma di Giorgio La Pira avrebbe indicato che Moro era prigioniero a “Gradoli”. Quasi sicuramente, la seduta spiritica era la copertura di una soffiata proveniente dall’area della sinistra extraparlamentare di Bologna. Le forze dell’ordine mettono sottosopra Gradoli, piccolo centro in provincia di Viterbo, senza trovare nulla.
E invece il 18 aprile una perdita d’acqua un po’ strana (la cornetta della doccia è bloccata verso il muro in modo da provocare un’infiltrazione), fa scoprire un covo delle Br in via Gradoli a Roma. E’ la casa in cui va a dormire Moretti e una delle basi più importanti dei brigatisti. La scoperta avviene praticamente in diretta tv. I brigatisti sanno dell’accaduto dai mass media e si guardano bene dal rimettere piede in via Gradoli.

Chi ha fatto scoprire il covo? Secondi alcuni si tratta di una partita tra servizi segreti e Br. Moro sta rivelando ai sequestratori verità scottanti (Gladio e altri segreti della Nato).

A questo punto sono in molti a volerlo morto e a operarsi perché ciò che dice rimanga conosciuto a pochissimi. I servizi, individuate le Br, avrebbero imposto loro l’uccisione dell’ostaggio. “Bruciare” il covo di via Gradoli è perciò un avvertimento: “Vi prendiamo quando vogliamo, fate attenzione”. Per molti si tratta di pure congetture. Ma la versione ufficiale dei fatti è a dir poco incredibile.

Poche ore dopo un altro colpo di scena: viene trovato il falso comunicato n. 7 che annuncia che il cadavere di Moro si trova sul fondo del Lago della Duchessa, sul Gran Sasso. Per ore le forze dell’ordine cercano inutilmente nel lago ghiacciato. Il comunicato è scritto dal falsario Toni Chicchiarelli, legato alla Banda della Magliana, ucciso qualche anno dopo in circostanze misteriose. La messa in scena sarebbe stata un diversivo per distrarre l’opinione pubblica da quanto accaduto in via Gradoli.

Dopo il 18 aprile, comunque, il sequestro prende una piega sempre più drammatica.
HYPERION
Ufficialmente una scuola di lingue a Parigi. Molto probabilmente una sorta di centrale internazionale del terrorismo di sinistra. Hyperion apre una sede a Roma ai primi di marzo del 1978 e la chiude pochi giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Moro. Davanti alla Commissione parlamentare stragi, il giudice Priore si è detto convinto che Hyperion avesse delle coperture da parte dei servizi segreti francesi. Ed è stato accertato che proprio i servizi francesi, prima della strage di via Fani, sapevano che a Roma si stava preparando il sequestro Moro. La foto di Innocente Salvoni, uno dei fondatori dell’Hyperion, viene diramata dal Viminale lo stesso 16 marzo tra quelli dei sospetti. In suo favore interviene l’Abbé Pierre e la foto viene immediatamente  ritirata.
Secondo le teorie più recenti, nel sequestro Moro ci fu una convergenza di interessi tra servizi segreti italiani, russi, americani e israeliani. Tutto interessati a non salvare Moro e a seppellire con lui le sue carte.

INTERROGATORI
Le Br affermano che era Mario Moretti a interrogare Moro. Il leader brigatista – latitante e ricercato – si sarebbe perciò spostato con i mezzi pubblici da via Gradoli (zona Cassia) a via Montalcini (zona Magliana) tutti i giorni. Un percorso enorme e rischioso.
In uno dei primi comunicati, le Br affermano che il “prigioniero sta collaborando”, rivelando cose interessanti. I sequestratori si preoccupano anche di dire che “nulla verrà nascosto alle masse”. E in effetti, come si saprà poi, Moro svela ai brigatisti diversi segreti di Stato, dall’esistenza di Gladio, la struttura segreta della Nato, ai finanziamenti illeciti ricevuti dalla Dc.
E invece, a sequestro concluso, le Br dicono che Moro non ha detto nulla di interessante e che i documenti saranno pubblicati attraverso la rete “clandestina proletaria”.
In realtà, il cosiddetto “memoriale Moro” è una bomba a orologeria. Le carte sono trovate in due fasi successive. Nell’ottobre del 1978 nell’appartamento-covo di via Montenevoso a Milano viene trovata una parte delle carte. Mancano quelle più scottanti, che saranno trovate nello stesso appartamento solo 12 anni dopo, nell’ottobre del 1990, dietro a un pannello. A Guerra Fredda ormai finita, la scoperta dell’esistenza di Gladio provoca un vero terremoto politico. Per il testo integrale del memoriale Moro clicca qui.

JALTA
“E’ Jalta che ha deciso Via Fani”. E’ la sibillina affermazione (una delle tante) di Mino Pecorelli, direttore della rivista scandalistica Op (vedi sotto). Pecorelli vuole dire che l’eliminazione di Moro e del suo progetto politico di apertura ai comunisti è una conseguenza inevitabile dell’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza americana.
La vedova Moro ha più volte affermato che il presidente della Dc era rimasto sconvolto da come il segretario di Stato Usa Henry Kissinger lo aveva messo in guardia dal formare un governo col Pci. Pecorelli aveva cominciato a titolare pezzi a dir poco allusivi: “Il Morobondo”, “Il ministro morirà a maggio”.

KGB
Nel novembre 1977 Sergej Sokolov, borsista presso la facoltà di Legge dell’Università La Sapienza di Roma, avvicina Moro per chiedergli se può frequentare le sue lezioni. Moro accetta, ma col passare delle settimane è insospettito dalle domande sempre più indiscrete che Sokolov fa ai suoi assistenti circa l’auto e la scorta. Nel 1999, in seguito alla pubblicazione del dossier Mitrokhin, si verrà a sapere che in realtà quello “strano studente” è il capo delle operazioni speciali del KGB in Italia. Sokolov incontra l’ultima volta Moro la mattina del 15 marzo. Da allora nessuno lo incontra più. Sempre grazie al dossier Mitrokhin si è appreso un altro tassello: nel maggio 1979 i brigatisti Valerio Morucci e Adriana Faranda, due delle menti del sequestro Moro, vengono arrestati nell’appartamento di Giuliana Conforto a Roma. Giuliana è figlia di Giorgio Conforto, nome in codice “Dario”, capo rete dei servizi strategici del Patto di Varsavia e dunque uomo del KGB durante il sequestro Moro.

LETTERE
Dal carcere del popolo Moro scrive 86 lettere. Alcune, scritte a mano, furono recapitate dai postini delle Br; altre non furono mai recapitate e vennero trovate nel covo di via Montenevoso. Attraverso le lettere Moro cerca di aprire una trattativa con i colleghi di partito e con le massime autorità dello Stato. Particolarmente toccanti le lettere indirizzate ai familiari e alla moglie Norina in particolare. E’ quasi certo che molte lettere non siano mai state trovate.

MORETTI
La sfinge del caso Moro. Qualcuno sostiene che dietro Moretti si muovono i servizi segreti. Altri dicono che sia stato ricattato ed “eterodiretto” durante il sequestro. Di certo è il più enigmatico e il più chiuso dei brigatisti. Come quasi tutti i suoi ex compagni, vive oggi in semilibertà. Si è sposato, ha una famiglia e un lavoro.

NDRANGHETA
C’erano uomini della ndrangheta calabrese a via Fani? E’ quanto emergerebbe da una telefonata intercettata e resa pubblica tra il segretario di Moro Sereno Freato e Benito Cazora, deputato incaricato dalla Dc di tenere i rapporti con la malavita calabrese per cercare di avere notizie   sulla prigione di Moro. Il solito Pecorelli fece capire di sapere qualcosa in merito.

OP
Carmine Pecorelli, giornalista legato ai servizi segreti, sulla sua rivista Osservatorio politico (Op) lancia accuse precise sotto forma di messaggi in codice. Il tempo dimostrerà che molte sue “intuizioni” erano esatte. In un clamoroso articolo intitolato “Vergogna, buffoni!”, Pecorelli sostiene che il generale Dalla Chiesa (lui lo chiama “Amen”) era andato da Andreotti dicendogli che aveva individuato la prigione di Moro e chiedeva l’autorizzazione per il blitz. Ma il presidente temporeggiò – secondo Pecorelli – perché doveva chiedere il permesso alla “loggia di Cristo in paradiso”, chiara allusione alla P2, i cui affiliati – si è scoperto poi – controllavano i punti chiave dello Stato. Pecorelli allude poi a una “amnistia che tutto verrà a cancellare in cambio del silenzio” e promette nuove clamorose rivelazioni.
Ma il 20 marzo 1979 Pecorelli viene ucciso a colpi d’arma da fuoco. Nel 1992 il pentito di mafia Tommaso Buscetta sosterrà che il delitto venne eseguito dalla mafia per “fare un favore ad Andreotti”, preoccupato per certe carte su Moro in possesso di Pecorelli. Il processo a carico di Andreotti si è concluso nell’ottobre 2003 con il giudizio della Cassazione che sancisce l’estraneità di Andreotti al delitto.

PROCESSI
Sei inchieste (di cui una ancora aperta) 23 sentenze, una serie di indagini ancora in corso. Il primo processo si chiude a Roma il 24 gennaio 1983 con la condanna all’ergastolo di 32 brigatisti rossi. Oggi in carcere non c’è praticamente più nessuno. Ecco nel dettaglio cosa fanno i brigatisti del caso Moro:
Rita Algranati  è in carcere, arrestata al Cairo il 14 gennaio 2004. Era latitante dal 1978;
Alessio Casimirri non è mai stato arrestato e attualmente vive in Nicaragua, dove gestisce un ristorante;
Alvaro Lojacono ha scontato nove anni in Svizzera, paese di cui ha ottenuto la cittadinanza e che non ha mai concesso l’ estradizione, prima di ottenere la libertà. Arrestato di nuovo in Corsica, a giugno 2001, dalla polizia francese, Lojacono è stato poi rimesso in libertà dopo che la Francia ha negato all’ Italia l’ estradizione;
Germano Maccari, il quarto uomo di Via Montalcini, è morto il 26 agosto 2001 nel carcere di Rebibbia, dove era entrato a novembre del 2000, dopo che la Cassazione aveva reso definitiva la sua condanna a 23 anni;
Mario Moretti, mente dell’ operazione e, sembra, killer di Moro, condannato a sei ergastoli, è in regime di lavoro esterno nel carcere di Opera (Milano). Ha lavorato a Lombardia Informatica.
Anna Laura Braghetti, ha ottenuto la libertà condizionale e lavora all’Arci di Roma;
Prospero Gallinari è fuori dal carcere a causa delle sue condizioni di salute (ha tre by-pass). Vive a Reggio Emilia;
Bruno Seghetti condannato all’ ergastolo, aveva avuto la semilibertà, che gli è stata però revocata nell’ ottobre del 2001, ed è quindi tornato nel carcere di Rebibbia;
Franco Bonisoli è stato il primo, tra i br legati al caso Moro, ad ottenere il permesso di lavorare fuori dal carcere. Ora è libero e dirige una società di consulenza nel settore ecologico;
Barbara Balzerani è in regime di lavoro all’ esterno dal carcere di Rebibbia, dove sconta una condanna all’ ergastolo, e lavora in una cooperativa che si occupa di informatica;
Raffaele Fiore all’ ergastolo al carcere di Opera, è ammesso anche lui al lavoro esterno e lavora a progetti di reinserimento socio-lavorativo;
Valerio Morucci è in libertà, fa il consulente informatico e scrive libri e racconti;
Rocco Micaletto di giorno lavora al servizio librario di una comunità genovese e la sera rientra nel carcere di Marassi;
Adriana Faranda, che non ha fatto parte del commando di via Fani, ma ha svolto, nei 55 giorni del sequestro, un ruolo di supporto logistico, è in libertà e fa la fotografa;
Raimondo Etro, l’ armiere che sembra essere stato escluso all’ ultimo momento dall’ agguato di via Fani e ha una condanna a 20 anni e mezzo, è agli arresti domiciliari;
Lauro Azzolini, che non ha partecipato direttamente al sequestro Moro, ma faceva parte della direzione strategica che si riuniva per gestire il rapimento, è libero e si occupa della raccolta differenziata di materiale informatico.

QUANTI?
Quanti erano i brigatisti a via Fani? Quante sono state le prigioni di Moro? Due interrogativi che racchiudono molti dei misteri del caso.

RENAULT 4
L’immagine del cadavere di Moro nel bagagliaio della Renault rossa in via Caetani rimane una delle immagini più tragiche della storia italiana recente. Misteri anche sull’atto conclusivo della tragedia: le Br sostengono che Moro venne ucciso a Via Montalcini alle sei del mattino e poi trasportato cadavere in via Caetani. Ma l’autopsia rivela che Moro è stato ucciso a non più di 50 metri da dove viene ritrovato e che sopravvisse quasi 15 minuti alle raffiche di mitra. Sui suoi vestiti e sui pneumatici dell’auto viene inoltre trovata sabbia di mare. I brigatisti sostengono che si trattò di un espediente per confondere le acque.
I giornalisti Giovanni Fasanella e Giuseppe Rocca sostengono nel loro libro “Il misterioso intermediario”, che Moro era a un passo dalla liberazione, salvato da un’abile mediazione tra Viminale, Br e Vaticano. Condotto in un palazzo del ghetto ebraico, stava per essere portato in Vaticano su un’auto con targa diplomatica. Ma all’ultimo momento all’interno delle Br qualcuno si rimangiò la parola data. Cossiga ha definito il libro “bellissimo”.

SKORPION
La mitraglietta che uccide Moro viene ritrovata in possesso di Valerio Morucci al momento dell’arresto nel maggio 1979. Di fabbricazione cecoslovacca, era lo strumento di morte preferito dai brigatisti.

TRATTATIVA
Trattativa o fermezza? Andreotti e buona parte della Dc sono per la linea dura, insieme a Pci e repubblicani. Socialisti, radicali, Lotta continua sono per la trattativa. Le Br chiedono inizialmente la liberazione di 13 detenuti. All’interno della Dc è Amintore Fanfani a suggerre al Quirinale di concedere la grazia a una terrorista detenuta e gravemente malata. La mattina del 9 maggio la direzione della Dc si appresta ad approvare una risoluzione che dia il via libera a un’operazione del genere. Ma pochi minuti dopo l’inizio della riunione, arriva la notizia della morte di Moro.

USA
Il governo Usa invia a Roma l’esperto della Cia Steve Pieczenik che consiglia il governo italiano di considerare Moro morto già dal momento del sequestro e di non impegnarsi troppo nella ricerca della prigione, per evitare blitz comunque pericolosi. L’unità di crisi risulterà costituita esclusivamente da affiliati alla P2 e i verbali delle riunioni andranno persi. Lo stesso Pieczenik tornerà negli Usa prima della conclusione del sequestro.

VICTOR, PIANO
Cossiga rivelerà che esistevano due piani segreti: il piano Mike, da attuare nel caso Moro venisse ucciso (M per morto) e il piano Victor (V per vivo), da attuare nel caso Moro venisse liberato. Il piano Victor prevedeva il totale isolamento di Moro in una clinica sorvegliata, in modo che non venisse interrogato subito dai magistrati. Una pratica attuata nel 1981 al termine del sequestro di Ciro Cirillo.

WALDHEIM
Il 25 aprile 1978 l’allora segretario delle Nazioni Unite Kurt Waldheim rivolge un appello alle Br per la liberazione di Moro. Altri appelli vennero rivolti da Paolo VI e da Amnesty International.

ZACCAGNINI
Il segretario della Dc Benigno Zaccagnini è il politico più segnato dalla tragedia di Moro. Sostenitore della fermezza, viene accusato direttamente da Moro di averlo abbandonato. Sarà ancora segretario della Dc fino al 1980, poi sparirà dalla scena politica. Terribile l’anatema scagliato da Moro contro i suoi compagni di partito: “Il mio sangue ricadrà su di loro”.